Giorno del Ricordo, 10 febbraio 2021. Le foibe e il racconto sull’esilio degli italiani da Istria e Dalmazia

Anna Sismondo - Giorno del Ricordo - Foibe - Esilio degli Italiani da Istria e Dalmazia ---

Il Giorno del Ricordo, per non dimenticare la tragedia delle foibe e il dramma degli italiani che sono dovuti scappare dall’Istria e dalla Dalmazia, dal 1943 al 1947.

Le foibe, con il massacro di migliaia di donne e uomini ad opera dei partigiani di Tito, e il dramma dell’esilio di centina di migliaia di esuli italiani sono infatti al centro del Giorno del Ricordo.

Un giorno per non dimenticare le sofferenze degli italiani che vivevano in pace e in armonia con i cittadini slavi nelle terre – sotto amministrazione italiana sino al 1947 – di Istria e Dalmazia.

Sono quegli italiani che sono stati costretti alla fuga, per chi ce l’ha fatta; o sono stati vittime del massacro ad opera dei partigiani assassini, al soldo del dittatore comunista Tito.

E’ una pagina di Storia da ricordare.

E’ una pagina di Storia da ricordare e far conoscere non per coltivare odio e vendetta, anche se le giustizia non ha fatto – come avrebbe dovuto – il suo corso, perseguendo e condannando i colpevoli di violenze, angherie, uccisioni, torture.

E’ una pagina di Storia da ricordare per rendere verità e rispetto, almeno quelli, alle donne e agli uomini, ai bambini e alle anziane che sono stati costretti alla fuga dalle loro case, in Istria e Dalmazia.

Una verità e un rispetto che meritano – nel doloroso ricordo – anche le migliaia di persone torturate, violentate, gettate vive nelle foibe, grandi inghiottitoi carsici che nella Venezia Giulia, dove furono gettati molti dei corpi delle vittime.

I massacri delle foibe e l’esodo dalmata-giuliano sono una pagina di Storia che per molti anni l’Italia ha voluto dimenticare.

Il giornale online Focus vi dedica un articolo del giornalista e storico Luciano Garibaldi: “Storia. Che cosa furono i massacri delle foibe”.

I massacri delle foibe sono stati degli eccidi ai danni di militari e civili italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, avvenuti durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra, da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA.

Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici, che nella Venezia Giulia sono chiamati “foibe”, dove furono gettati molti dei corpi delle vittime.

Anna Sismondo - Giorno del Ricordo - Foibe - Esilio degli Italiani da Istria e Dalmazia ---

 

Giorno del Ricordo: 10 febbraio

Oggi, 10 febbraio 2021, Giorno del Ricordo, come Biblioteca civica “Andrea Porta” di Mezzane di Sotto, vogliamo ricordare gli esuli italiani e le vittime delle violenze. 

Lo facciamo ascoltando la testimonianza di Anna Rismondo, che a 5 anni, nel 1947, assieme alla madre scappò da Rovigno, in Istria, per raggiungere l’Italia.

Il viaggio fu rischioso e doloroso, con l’abbandono della casa in cui era nata, della terra che amava e con l’arrivo in un’Italia che – imbrigliata fra miserie e paure – era tutto tranne che ospitale nei confronti degli italiani immigrati e in fuga dalle violenze.

E’ uno scenario che si è ripetuto più volte nei secoli. E che continua a ripetersi.

Abbiamo voluto ascoltare la signora Anna Rismondo convinti che sia giusto far sentire la voce di chi non ha avuto voce.
E convinti che solo facendo i conti con la propria Storia ci si può migliorare.

La vicenda di Anna Rismondo, poi, ci rammenta che – al di là della retorica – come cantava Fabrizio De Andrè “certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.

La signora Anna Rismondo è stata ricevuta dal sindaco di Mezzane di Sotto, Giovanni Carrarini, in Sala degli Affreschi, a Villa Maffei Benini, sede municipale. 

Proprio nella Sala degli Affreschi, fra i paesaggi di pace e vita agreste, la signora Anna ci ha raccontato il dramma degli esuli italiani da Istria e Dalmazia. E la tragedia delle foibe, delle violenze, delle torture e di atti vili mai giudicati da alcun tribunale.

Maurizio Corte

Anna Rismondo. Video 1: la fuga degli italiani da Istria e Dalmazia. E il difficile inserimento in Italia

 

Anna Rismondo. Video 2: la fuga degli italiani, i massacri e l’impossibilità del ritorno

 

Anna Rismondo. Video 3: il passato che non torna e l’accettazione della “diversità”

La fuga e il ritorno dell’esule

Il giornalista Giuseppe Corrà, corrispondente del quotidiano L’Arena, ha raccolto e scritto un pezzo di vita di Anna Rismondo, l’esule italiana dall’Istria, nel 1947, quando assieme alla madre è scappata da Rovigno. Aveva solo 5 anni.

Anna Rismondo: “Ci sono tornata a Rovigno”

Ecco la testimonianza di Anna Rismondo. Raccolta, in presa diretta, da Giuseppe Corrà.

Ci sono tornata nella mia casa di Rovigno sul mare, nella mia Istria piena di sole. Ci sono tornata, ma solo da adulta, dopo tanti anni di assenza e con un grosso groppo di pianto in gola.

Non sapevo chi avrei incontrato nella mia casa di Rovigno in faccia al mare quel giorno in cui ho bussato alla sua porta. L’avevo abbandonata tanti anni prima la mia casa, ma il suo ricordo era rimasto nel fondo della mia anima, del mio cuore, indelebile.

Di anni ne avevo quanti le dita di una mano, solo cinque, quando avevo dovuto abbandonarla insieme alla mamma che si sforzava di guardare dritto davanti a sé, ma che non conosceva la meta da raggiungere. Andavamo via senza sapere dove ci saremo fermate, dove avremo cercato di mettere nuove radici in una terra che non conoscevamo, tra gente estranea.

Ricordo che era una mattina di febbraio con il freddo pungente e la mamma, prima di uscire di casa, aveva approfittato di quella circostanza per coprirmi a strati. Mi aveva fatto indossare quanti più vestiti poteva, uno sopra l’altro. L’aveva fatto, certo, per ripararmi dal freddo, ma anche per portarli con noi quegli indumenti che, altrimenti, avremmo dovuto lasciare per non caricarci di troppo peso.

Per strada abbiamo camminato senza scambiarci una parola mentre raggiungevamo la stazione ferroviaria. Non c’era niente da dire. Nulla andava detto perché orecchi indiscreti potevano ascoltarci, magari tradirci. Ci accompagnava solo la paura, il silenzio e il freddo.

Ricordo che abbiamo viaggiato per tanto tempo in treno in mezzo al baccano infernale prodotto dalle ruote di un misero vagone merci fornito solo di balle di fieno pensate come sedili e letti per la notte, quasi fossimo degli animali in viaggio verso il loro tragico destino.

C’era freddo in quella carrozza in cui l’aria gelida dell’inverno filtrava tra le assi sconnesse delle pareti. La mamma, la rivedo ancora, cercava di tappare alla meglio quelle fessure con la paglia per proteggermi dal freddo. Ma io non volevo che chiudesse tutti gli spiragli che mi permettevano di guardare la campagna triste che correva via in senso opposto alla nostra direzione di marcia priva di una meta.

Puzzava di suo quel nostro vagone usato per il trasporto delle merci, forse anche del bestiame. E puzzava pure per causa nostra, una decina di persone, lì rinchiuse. Sì, rinchiuse perché quando l’ultimo di noi era salito sul treno, abbiamo sentito la porta che veniva sprangata dall’esterno. E in quel carro merci siamo rimasti serrati per più giorni e più notti, anche con i nostri bisogni corporali da soddisfare proprio lì, rannicchiati in un angolo.

 «Che bisogno c’era di chiuderci dentro – si era a lungo domandata la mamma senza mai ottenere risposta – dal momento che avevamo chiesto noi di poter andar via?».

Sempre la mamma mi ha raccontato più volte che, durante quell’interminabile viaggio su linee ferroviarie disastrate, ci hanno fatto scendere a Trieste per controllare i nostri documenti e per spruzzarle il ddt anche sotto la gonna, quasi che chi proveniva dall’Istria dovesse per forza essere carico di pidocchi. E quel gesto l’aveva profondamente offesa tanto da non poterlo mai dimenticare.

Anche tra i miei riccioli hanno spruzzato quell’insetticida, ma io non lo ricordo. Me l’ha spesso raccontato la mamma con gli occhi tristi e pieni di pianto.

Ora con i capelli ingrigiti dagli anni ero tornata a Rovigno per rivedere il mare, per respirare la sua aria impregnata di sole e di sale, per ritrovare la mia città con i suoi “alberi” sul molo.

 “Alberi” strani quelli che erano rimasti impressi nella mia mente di bambina mentre raggiungevo la stazione ferroviaria quella fredda mattina di febbraio di tanto tempo prima. Era già passata una vita.

Avevo tentato più volte di farmeli ricordare quegli “alberi” in faccia al mare da mia mamma. Ma lei si era sempre rifiutata di farlo. E, per tanto tempo, ho faticato a capirne il perché. Poi qualcuno, non ricordo chi, me l’ha detto: sul molo c’erano degli uomini che penzolavano impiccati ai bracci dei lampioni asburgicii. Ed io li avevo visti con i miei occhi da bambina ed erano rimasti sempre dentro di me.

Ero tornata alla mia Rovigno sul mare istriano perché volevo rivedere la mia casa ed ora mi trovavo davanti alla mia porta con il cuore in gola e la mente piena di immagini, piena di ricordi che andavano a sovrapporsi l’uno all’altro, senza ordine, senza nessuna logica, quasi fossero dei geni liberati dopo esser stati troppo a lungo compressi in una bottiglia che le onde avevano fatto approdare sulla spiaggia sassosa della mia Rovigno.

 «Volevo poter rivedere la mia casa dove…». Solo queste parole sono riuscita a pronunciare in un soffio e con fatica alla donna che mi ha aperto la porta della mia abitazione.

Sul suo volto ho visto passare una domanda, ma solo per un brevissimo momento. Poi si è fatta in disparte e  mi ha lasciato entrare. E da quelle pareti mi è venuta incontro la mia prima infanzia fino a che gli occhi mi si sono velati di pianto e un senso di vertigine ha rischiato di farmi cadere sul pavimento di mattonelline rosse dove avevo giocato a lungo felice e spensierata.

Quelle stanze, nonostante i cambiamenti subiti dopo la mia partenza, le conoscevo ancora molto bene, mi erano ancora tanto familiari. E non potevo smettere di girare attorno i miei occhi per cercare una conferma a tutti i ricordi del mio passato. La vertigine era sul punto di rapirmi. Ma ormai era ora che andassi: quella non era più la mia casa.

L’avevano deciso gli altri là in alto: i nostri possedimenti, tutte le nostre cose dovevano servire per risarcire i danni che la guerra degli italiani avevano inflitto all’Istria, alla nuova terra destinata solo agli slavi del sud e a quanti di noi avessimo accettato di non sentirci più italiani.

Mentre ancora una volta quella porta si chiudeva per sempre alle mie spalle, avvertivo chiaramente in me un sentimento profondo: non ero capace di odiare quelle persone che ora abitavano la mia casa di Rovigno in faccia al mare istriano perché là la vita continuava anche dopo di noi. Anche se ci vuole molto tempo per poterla accettare questa realtà. E, forse, una vita non basta                                                                                                   

Giuseppe Corrà